Con un ordinanza pubblicata poche ore fa, la sezione napoletana del TAR Campania ha condannato Giosuè Tito, fratello del Sindaco Giuseppe, alle spese di procedura di merito alla vicenda dell’hotel Giosuè a Mare.

Una decisione interlocutoria che se da una parte non incide sul merito della vicenda, dall’altra lascia a dir poco perplessi.

Il tutto nasce addirittura nel lontano gennaio del 2007, quando il Comune di Meta emise un’ordinanza di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, contestando la realizzazione di tre stanza senza il prescritto titolo abilitante.

Dopo un silenzio durato dieci anni, nel maggio del 2017 il responsabile dell’edilizia privata, l’architetto Diego Savarese disponeva l’acquisizione al patrimonio comunale delle tre stanze del Giosuè a Mare mai demolite.

Era proprio contro quel provvedimento che ricorreva al Tar Giosué Tito, comproprietario dell’immobile insieme agli altri fratelli e sorelle, compreso il Sindaco Giuseppe.

Il 26 luglio del 2017, l’allora responsabile del settore contenzioso, la dottoressa Elena Russo, disponeva di resistere nel giudizio promosso da Tito e conferiva mandato al legale convenzionato con l’Ente: l’avvocato Domenicoantonio Siniscalchi.

Incardinatosi il giudizio, il TAR fissava per lo scorso 25 settembre 2018, l’udienza in cui si sarebbe dovuto discutere sull’opportunità di sospendere il provvedimento adottato da Savarese.

Pochi giorni prima dell’udienza, il 20 settembre, i legali di Tito presentavano un’istanza in cui comunicavano di rinunciare alla sospensiva.

Motivi?

Non ci sarebbero, a detta del TAR, o meglio non sono stati rappresentati

“…elementi sopravvenuti a giustificazione del mutato intento processuale”.

Di qui la decisione di non provvedere sulla sospensiva, vista la rinuncia, ma di condannare comunque il Tito a rifondere al Comune le spese della procedura.

Cosa è successo però?

Perché Tito ha rinunciato alla sospensiva?