La fiction “Fabrizio De André -Il principe libero”, andata in onda su Rai 1 gli scorsi 13 e 14 febbraio, ha puntato i riflettori mediatici sul celebre cantautore genovese.

Non che avesse bisogno di ulteriore notorietà. Anzi.

Le sue canzoni sono patrimonio culturale della musica italiana, nonché testi di antologia letteraria nelle scuole già dagli anni Settanta. Raccontano di emarginati e oppressi, di gente comune, persone semplici come tante. Parlano della guerra e della morte, dell’amore e della vita.

De André denuncia le piaghe e le corruzioni della società, per poi avvolgerle in una fascinosa suggestione musicale, confortevole rifugio al male di vivere.

L’ispirazione nasce  dalla realtà, il genio artistico la tramuta in poesia.

Una lirica melodica, dalle molteplici sfumature.

La sua  musica  sa essere delicata e mesta, ma sa anche coinvolgere come i ritmi suadenti  delle ballate popolari.  È una vibrazione di sentimenti. È la voce garbata, eppure profonda, di chi canta la vita.

Ascoltare De André significa lasciarsi andare a trasognati lirismi intrisi di spunti riflessivi.

Sono cresciuta tra le melodie delle sue canzoni.

Mio padre aveva comprato i suoi album, i 33 giri di una volta.

Ricordo ancora a memoria molti testi,  ogni tanto mi ritrovo a canticchiarli quando sono sola in casa. Una volta ho osato interpretare “Il Pescatore” a un karaoke.

Quando mia sorella era appena nata, la notte non si dormiva e noi allora ascoltavamo De Andrè. Era l’unico modo per farla smettere di piangere. Con un pezzo in particolare: la testina del giradischi puntava quasi sempre su “La canzone di Marinella”, ne solcava le dolci note malinconiche, il pick-up quasi ne consumava la traccia audio.

“E come tutte le più belle cose, vivesti solo un giorno, come le rose”

… e mentre Marinella volava in cielo su una stella, mia madre spingeva il carrozzino e la luce lunare filtrava tra le persiane a schiarire il buio della stanza.

Nessun pianto, nessun singhiozzo.

Solo la voce di Fabrizio.

Restavamo ancora per un po’ nel salotto, c’erano le altre canzoni a riempire il silenzio della notte. C’era “Bocca di Rosa”, che metteva l’amore sopra ogni cosa;  c’erano gli occhi di bosco e i riccioli neri di “Andrea”; i papaveri rossi del campo di grano dov’era sepolto Piero; c’era il pescatore con un solco lungo il viso, come una specie di sorriso.

Restano loro, le canzoni.

È questa l’eredità più autentica del cantore-poeta, del “principe libero” dalle convenzioni, dalle logiche impervie dei sistemi dominanti, come dal concetto stesso di artista.

E noi lo ricordiamo così. Attraverso la sua musica, le parole, i pensieri e l’ideale di libertà. Tutto qui.

L’altro giorno ho recuperato il vinile con “La canzone di Marinella”, la copertina ancora intatta, giusto un po’ ingiallita nella parte interna. Ne osservo l’illustrazione: il  volto di De André mi riporta a quello di Luca Marinelli, l’attore scelto per interpretarlo nella fiction.

Faccio parte di quei sei milioni di telespettatori sintonizzati alle due puntate dedicate alla vita di De André, il film che …

“… piacerà a chi lo ha conosciuto davvero, perché lo ritroverà, mentre chi se lo è solo immaginato, si sentirà come tradito”

È il rischio che si corre in ogni trasposizione da vita vera a film.

Ci sono le notizie biografiche, certo.  Ma l’autenticità del vissuto e della personalità,  ovviamente no.

Le pellicole forniscono interpretazioni che ledono l’immaginario collettivo, lo incanalano in un prototipo costruito, che per quanto impostato il più possibile sui fatti e sulle fonti, mancherà sempre di qualcosa.

De André è De André, immortalato nell’Olimpo delle grandi celebrità.

A noi “che lo abbiamo solo immaginato” piace ricordarlo  per le sue canzoni, senza entrare troppo nel personaggio, per non intaccare quella sacralità mistica che lo avvolge da sempre.

Il film ne narra la vita, con tutte le fragilità, le inquietudini, la paura del palcoscenico. I pregi ed i difetti. I dettagli , forse qualche omissione.

Bravo Marinelli, bravi anche gli altri attori. Una produzione accurata, attenta a tanti aspetti.

Ma  noi, davanti a questa sequenza di scene  che lasciano poco spazio all’immaginazione, restiamo disorientati.

Sentiamo il bisogno di rendere De André meno umano tra gli umani e di lasciarlo lì, tra gli dei, in quel  maestoso tempio musicale,  tra le note divine delle sue canzoni.

Mariaelena Castellano