Ho conosciuto Rudolf durante il suo lungo soggiorno in Penisola sorrentina. Rudolf è un anziano pensionato di Brema, la città dei celebri quattro musicanti. Lui però con la musica non c’entra un bel niente. Dice di avere “circa” settant’anni. Secondo me il suo “circa” tende più all’ottanta che al settanta, ma questo non gliel’ho mai detto.

Qualche sera fa mi ha fermato nei pressi del cancello di casa (alloggia non distante da dove abito) e mi ha chiesto cosa avessi da fare per la mattina seguente.

Dopo una serie di scuse non andate a buon fine, ho finito per accettare l’invito.

Così la mattina seguente ci siamo ritrovati a percorrere la strada che conduce al borgo di Marina di Cassano. Rigorosamente a piedi, perché non me la sono sentita di far salire sulla moto i suoi “circa” settant’anni.

Lungo il percorso mi ha raccontato una serie di aneddoti. Almeno così credo, perché non ci ho prestato troppa attenzione. Giunti finalmente a destinazione mi ha invitato a seguirlo in direzione del Vallone di San Giuseppe. Non sapevo bene le sue intenzioni, ma il fatto che mi avesse chiesto di portare con me la macchina fotografica e di venire attrezzato con scarpe da ginnastica e pantalone lungo un po’ mi ha insospettito.

Ad un tratto, giunto al confine con il territorio di Sant’Agnello ha arrestato la sua andatura  e mi ha invitato a leggere questo cartello:

“Quarda, lecci lecci”…

…mi ha detto con la sua inconfondibile cadenza meccanica, tipicamente germanica.

Ho guardato ed ho letto. Ho cominciato anche a capire dove volesse andare a parare. In quel preciso istante mi è venuto in mente che per quell’antica discesa pedonale per il passato erano stati spesi un po’ di soldini della Comunità europea (quindi anche di Rudolf). Non ho detto niente, però, per non beccarmi i soliti improperi contro gli italiani/pizza/mafia/mandolino.

D’altronde parliamo di fatti che nemmeno conosco bene. Risalgono ad un epoca in cui mi crogiolavo nella mia R.A.M. Quella Repubblica Autonoma Mentale di cui costituivo base e vertice. Quindi ignoravo tutto ciò che avveniva al di fuori del cancello di casa.

Per buona pace mia e, soprattutto, degli altri.

Mi sono limitato ad annuire ed a seguirlo. Mentre continuavamo a salire gli ho fatto però presente che quel cartello era vecchio, che ora il transito lungo quella antica discesa pedonale era interdetto.

L’avessi mai fatto. Ha inizito ad agitare il dito come i tergicristalli di un auto durante un forte acquazzone.

“Non è fero”.

Ha sentenziato, grugnendo ancor più la “erre” di vero.

Fatti pochi passi sono stato costretto a dargli ragione. Quel cartello artigianale che un tempo indicava il divieto di transito era sparito. Consunto dagli agenti atmosferici.

Oltre al cartello anche i nastri plastificati bianchi e rossi, che impedivano di inerpicarsi lungo l’antica discesa pedonale (che da lì è salita), erano passati a miglior vita.

Meglio rassegnarsi aveva proprio ragione Mister Kapò.

Via libera. Questa volta di sicuro la denuncia non può scattare.

Ad un tratto Rudolf mi ha invitato ad accostare alla parete tufacea. Così mi sono rassegnato a strisciare di soppiatto, come nella scena clou di un film poliziesco. Ho cominciato a sospettare della sua salute mentale. Dopo un po’, però, quando ci siamo messi il punto nevralgico alle spalle, sono stato sono stato nuovamente costretto a dargli ragione. Il suo dito si è rivolto in direzione di una disastrata piattabanda che un tempo aveva la pretesa di essere di cemento armato.

A quel punto l’ho anticipato:

“Guardo, guardo, ma che devo guardare?”

Mi ha mostrato un lungo tondino di ferro arrugginito che penzolava dall’alto come la più classica delle spade di Damocle.

“Se kate?”

Mi ha chiesto.

“E se kate so’ cazzi”, gli ho risposto tra me e me mentre scrollavo le spalle.

Lui ha agitato la mano e si è lasciato andare in una smorfia in cui ha atteggiato il viso al più classico degli:

“Italiani/pizza/mafia/mandolino”.

Non lo ha detto però.

Ha continuato invece spedito la sua escursione, facendomi venire il dubbio che forse quel “circa” fosse davvero più vicino al settanta che all’ottanta.

All’improvviso è balzato su un muretto. Rassegnato mi sono passato la mano sulla fronte, già madida di sudore dopo aver percorso solo poche centinaia di metri.

Chi me l’aveva fatto fare di seguire quello svitato?

Eravamo giunti praticamente alla foce del rivo di San Giuseppe e questa volta l’indice accusatore di Rudolf era puntato su un grosso masso di tufo staccatosi dal costone. Un qualcosa di mastodontico.

“Quello,  lì non teve stare. Io sono incegniere itraulico”.

Ti pareva: su una popolazione di oltre 80 milioni di tedeschi proprio un fottuto ingegnere idraulico dovevo incocciare?

Ha iniziato così tutta la sua tiritera tecnica e mi ha mostrato quelle che erano le conseguenze che derivavano da quel gigante che ostruisce il normale deflusso dell’acqua.

Siamo tornati a scendere. Mi ha mostrato una serie di detriti accumulatisi in terra.

Mi ha spiegato che per fortuna il rivo non portava anche scarichi inquinanti, altrimenti questi si sarebbero potuti riversare tutti lungo la strada e poi sulla sottostante spiaggia di Caterina.

“Già, per fortuna!”, ha pensato. Il coraggio di dirgli che quella fortuna purtroppo proprio non ce l’abbiamo, che quando piove quel rivo si riempie di merda, non mi è venuto.

Abbiamo così ripreso il sentiero dell’antica discesa di Caterina…

(FINE PRIMA PUNTATA)

Johnny Pollio