Altro grande protagonista dell’ultima stagione del classicismo è  Skopas (390-325 a.C.), scultore natio di Paros, una delle isole Cicladi.

Con lui, le conquiste formali di Prassìtele giungono alle estreme conseguenze fluendo nell’espressività inquieta e nell’intima tensione dei suoi personaggi.

I sentimenti che pervadono le opere di Skopas prendono le distanze da quell’imperturbabile serenità ravvisabile, invece, nei volti scolpiti da Fidia o da Policleto.

I tempi sono  ben lontani  da quel positivo momento storico seguito alla vittoria ellenica sui Persiani: l’età classica volge  al tramonto, il panorama socio-politico è mutato e con esso risultano cambiate anche le concezioni artistiche e culturali.

Così, Skopas veste le sue statue di un’intensa passionalità e di una nuova, potente drammaticità. Corpi e volti vibrano di vita, mentre studiati effetti chiaroscurali contribuiscono all’effetto dinamico d’insieme.

Tra le poche testimonianze originali pervenuteci dalla produzione dell’artista,  ricordo i frammenti scultorei dei frontoni del Tempio di Atena Alea, a Tegea, nel Peloponneso, risalenti al 360 a.C. ca.

Tra questi segnalo, in particolare, una Testa di guerriero con elmo, proveniente dal frontone occidentale e dotata di una suggestiva carica espressiva, ravvisabile nonostante il precario stato conservativo.

Gli occhi sono infossati e volti verso l’alto, la bocca appare dischiusa nello sforzo del movimento; i lineamenti rigonfi sono percorsi da un’accesa tensione interna. Ne deriva un gran effetto di pathos(*), che doveva caratterizzare l’intero ciclo decorativo dei frontoni, raffiguranti le lotte mitologiche dell’eroe locale Telefo,  figlio di Eracle e Auge.

Risale a un periodo compreso tra il 350 ed il 325 a.C., la realizzazione della statua di Pothos(*), oggi nota attraverso la copia romana dei Musei Capitolini di Roma.

Il dio si lascia andare a un atteggiamento languido, incrocia le gambe e anche il suo corpo cede a quel sentimento di molle abbandono, già percepibile nello sguardo trasognato.

Come nelle opere di Prassìtele, Skopas ricorre qui a un sostegno esterno, consistente nella veste riccamente pieghettata, che bilancia la forte inclinazione laterale della divinità.

L’intensa carica espressiva e la prorompente energia, che contraddistinguono le opere dell’artista, sono particolarmente evidenti nella celebre Menade(*), in cui si raggiungono risultati di grande efficacia comunicativa.

Nella seconda metà del IV secolo a.C., Skopas viene convocato ad Alicarnasso (l’attuale città turca di Bodrum) dal governatore della provincia persiana, Mausolo(*), per collaborare alla decorazione scultorea del suo monumento funebre, uno dei più spettacolari e sfarzosi dell’antichità, di cui oggi non restano che pochi frammenti.

Alla realizzazione della decorazione scultorea del Mausoleo di Alicarnasso, partecipa anche Leochares, ateniese come Prassìtele e attivo probabilmente fino al penultimo decennio del IV secolo a.C.

A lui sono attribuite diverse statue raffiguranti divinità olimpiche, tra cui un Apollo(*) e un Ganimede rapito dall’aquila, entrambe opere bronzee  conosciute attraverso copie marmoree di età romana.

Gli dei scolpiti da Leochares, nonostante le proporzioni esili e l’effetto dinamico d’insieme, sono dotati di un’aura di solenne raffinatezza, che ne svela la composta e regale divinità.

Nel gruppo del Ganimede rapito dall’aquila, l’artista riesce a cogliere il momento in cui Zeus, trasformatosi nel maestoso uccello rapace,  solleva il giovane per portarlo con sé sull’Olimpo. Secondo il mito greco, Ganimede, figlio del re Troo, capostipite dei Troiani, era dotato di una straordinaria bellezza, tanto da essere rapito dal padre degli dei, che ne fece il suo coppiere. Leochares riprende il racconto plasmandolo in un’opera contraddistinta da un’originale verve comunicativa.

Mariaelena Castellano

PER SAPERNE DI PIU'...

POTHOS

Nella mitologia greca,  gli svariati aspetti dell’Amore, oltre che dal più rinomato Eros, sono simboleggiati anche da altre due divinità alate, Imeros e Pothos.

Quest’ultimo rappresenta il sentimento del languore nostalgico verso l’essere amato lontano.

Generato da Afrodite e Crono, anche se una variante più tarda del mito lo rende figlio di Zefiro e Iris, Pothos simboleggia anche un secondo aspetto amoroso, legato al desiderio sessuale.

IL MAUSOLEO DI ALICARNASSO

Il celebre monumento funebre, alto più di 40 metri, prende il nome dal suo committente, Mausolo. Per estensione di significato, ancora oggi, con il termine “mausoleo” si suole indicare una struttura sepolcrale.

Dalle fonti scritte e dai disegni ricostruttivi, sappiamo che l’opera si configurava come un tempio quadrato in marmo bianco, innalzato su un’ampia zoccolatura a tre gradoni e fornito di un’elegante peristasi ionica di dieci colonne per lato. Al di sopra dell’edificio, si ergeva una maestosa piramide a gradoni, sovrastata dalla quadriga di Mausolo.

La decorazione scultorea del Mausoleo era sorprendentemente ricca e vantava una gran  qualità esecutiva, rispondente al raffinato gusto espressivo del tempo.

L’APOLLO DEL BELVEDERE   – copia marmorea del II sec. d.C. di un originale bronzeo, forse di Leochares, scolpito tra il 330 e il 320 a.C., Città del Vaticano, Musei Vaticani.

A inizio XVI secolo, il pontefice Giulio II fece collocare nel giardino del Belvedere, in Vaticano, una statua facente parte delle sue collezioni private e raffigurante il dio Apollo. L’opera, perciò denominata “Apollo del Belvedere”, è una probabile replica dell’originale bronzeo di Leochares. Risale al II secolo d.C. ed è una copia oggi ritenuta di fattezza esecutiva piuttosto fredda e accademica.

Nel XVIII secolo, invece, lo studioso Johann Joachim Winkelmann la considerò come un prestigioso esempio di arte greca, incarnante alla perfezione il valore classico di bellezza assoluta, “il più alto ideale dell’arte fra tutte le opere antiche”. Nonostante la mancata veridicità cronologica, questo giudizio contribuì ad accrescere nei secoli la fama dell’esemplare di età romana.

DENTRO L'OPERA

(*) MENADE   copia romana da un originale in marmo del 330 a.C. circa – Dresda, Skulpturensammlung.

L’esasperata espressività di Skopas trova piena realizzazione nella piccola statua di Menade, probabilmente in origine collocata nel Tempio di Dioniso a Sicione, nel Peloponneso, e oggi conosciuta attraverso una celebre copia romana conservata a Dresda.

La menade, o baccante, seguace dei culti di Dioniso, divinità del vino e dell’ebbrezza, danza frenetica, invasata dalla furente sacralità del dio; volge di scatto la testa all’indietro imprimendo al busto un’ardita torsione, che le scompiglia i capelli.

Lo sguardo  perso e al tempo stesso vitale rivela le sue concitate emozioni. I ritmi scomposti e tumultuosi della danza le aprono il succinto chitone  e le denudano un intero fianco lasciandole così sprigionare un’alta carica erotica.

IMPARIAMO I TERMINI

(*) PATHOS  Termine greco che significa turbamento, passione, intensità emotiva e partecipazione affettiva.