Et ebbono l’opere sue tanta grazia, disegno e bontà…

(G. Vasari, da Le vite)

Donato di Niccolò di Betto Bardi, soprannominato Donatello, nasce nel 1386 a  Firenze; qui compie la sua formazione artistica, ponendosi in breve tempo come l’iniziatore della scultura rinascimentale.

Di umili origini, grazie al suo talento raggiunge una posizione sociale invidiabile divenendo una delle figure centrali nel panorama culturale del Quattrocento italiano, nonché l’artista prediletto di Cosimo il Vecchio.

Apprezzato già dai contemporanei come  un grande e geniale innovatore, oltre alla natia Firenze, ha modo di lavorare anche in altre città dell’Italia centro-settentrionale e le sue opere vengono richieste anche altrove.

La sua carriera, lunga oltre sessant’anni, prende avvio tra la schiera di collaboratori che affiancano Lorenzo Ghiberti nella realizzazione della Seconda Porta del Battistero di San Giovanni. Quanto la frequentazione di questa rinomata bottega abbia significato per Donatello traspare in particolare nella sua spiccata padronanza tecnica, mostrata nei più disparati ambiti operativi.

Fondamentale, inoltre, l’amicizia con Filippo Brunelleschi, fonte di nuovi e stimolanti orizzonti per il giovane scultore. Nel primo decennio del XV secolo, i due artisti si recano insieme a Roma, dove coltivano la comune passione per la riscoperta delle vestigia classiche.

Tuttavia, Donatello veicola gli insegnamenti della razionalità brunelleschiana verso una direzione più drammatica ed espressiva. Egli non si limita a recuperare la tradizione classica: va oltre e infonde ai suoi personaggi ricchezza espressiva e introspezione psicologica, riscoprendo così l’individualità dell’uomo.

Lavoratore instancabile, di carattere schivo e modesto, Donatello si mette in gioco in un continuo sforzo di auto-superamento, cimentandosi in materiali e tecniche diversi. Sperimenta di volta in volta metodi innovativi, ma quel che resta costante in lui è l’interesse per l’umanità che lo circonda, per le storie quotidiane e per le vicende che si svolgono sotto i suoi occhi.

Così, sin dagli esordi,  nei cantieri fiorentini del Duomo e della Chiesa di Orsanmichele, i personaggi che scolpisce risultano caratterizzati da un’intensa emotività.

Realizzato in marmo, tra il 1413 e il 1415, per decorare la facciata della cattedrale, il monumentale San Giovanni Evangelista si distingue per l’aspetto severo e autorevole, nonché per il senso di potenziale movimento suggerito da una sapiente trattazione anatomica.

Le statue del San Marco e del San Giorgio, anch’esse in marmo, sono invece destinate a ornare due dei quattordici tabernacoli esterni di Orsanmichele, elegante loggia trasformata in chiesa.

In questi primi decenni del Quattrocento, la Chiesa di Orsanmichele assume il significato di tempio della borghesia fiorentina: dal 1404 le Arti Maggiori(*) ricevono l’onore (e insieme l’onere) di contribuire alla decorazione esterna dell’edificio.

Nel 1411 i membri dell’Arte dei Linaioli ingaggiano Donatello per l’esecuzione della statua del loro santo protettore, San Marco, caratterizzata da un plasticismo potente ed essenziale.

Il Santo mostra una gran padronanza nello spazio e, come già nel San Giovanni Evangelista, la complessa rotazione del busto rivela una forte impressione di movimento.

Risale invece al 1416, la commissione da parte dell’Arte dei Corazzai e Spadai della statua del San Giorgio,  soldato della Cappadocia arruolato nell’esercito di Diocleziano e martirizzato prima del tempo di Costantino per la sua professione di fede.

Su questo personaggio sono fioriti numerosi racconti: prima tra tutte la leggenda del Santo cavaliere che ai tempi delle crociate libera la principessa della Libia da un mostruoso drago sommerso tra le paludi.

Donatello riprende l’iconografia di questa narrazione medievale e  rappresenta l’eroe in piedi, ben saldo sulle gambe divaricate e con il grande scudo che fa da perno centrale alla composizione; il busto eretto, leggermente ruotato, è bilanciato in questo movimento dalla tensione del collo; lo sguardo, fiero e vigile, si perde in lontananza,  a indicare la concentrazione per l’imminente scontro con il drago: nel suo atteggiamento non c’è spavalderia o vanità, ma attenta valutazione delle proprie forze rapportate a quelle del nemico.

In questa lotta, d’altronde, si cela il significato dello scontro tra il Bene cristiano e le forze peccaminose del Male.

La meticolosa cura nella resa dei dettagli dell’armatura deriva probabilmente dalla volontà dell’artista di compiacere i committenti, dediti per mestiere alla produzione di armi e  corazze. Sotto l’armatura, traspare un corpo ben modellato e sapientemente proporzionato. Alla solidità fisica fa riscontro la fermezza morale rivelata dall’espressione intensa, quasi corrucciata, di un uomo che svela tutta la sua  dignità, a dimostrazione  della straordinaria tensione psicologica donatelliana.

Nel basamento della statua, il Maestro realizza anche un bassorilievo con il San Giorgio che uccide il drago, dove applica con padronanza le regole della prospettiva brunelleschiana.

La scena, costruita razionalmente e caratterizzata da un unico punto di fuga, è dominata al centro dal concitato combattimento tra il Santo e il drago. Essi, modellati da una plasticità prorompente e da un dinamismo impetuoso, evidenziato dal mantello svolazzante del cavaliere,  presentano un rilievo più pronunciato rispetto alle immagini dello sfondo, che si fanno via via più piatte in un impalpabile trapasso di piani. Questi delicati passaggi di spessore danno luogo alla cosiddetta tecnica dello stiacciato, qui impiegata con assoluta disinvoltura. Ne deriva una sapiente costruzione prospettica, nonché un suggestivo effetto luministico di tipo pittorico.

L’importanza della nota chiaroscurale emerge anche nelle statue dei profeti Abacuc  e Geremia, che Donatello scolpisce tra il 1423 e il 1435 per il campanile del Duomo: luci e ombre si impigliano tra le pesanti pieghe dei mantelli conferendo un’aura di gran solennità ai due personaggi.

Per realizzare queste figure, l’artista si ispira a gente reale del popolo. Il Geremia ha fattezze rudi e lineamenti non più giovanili; labbra e sopracciglia sono arcuate, lo sguardo è corrucciato.

L’Abacuc è calvo e ha il volto scarno, anch’egli così lontano dai canoni di perfezione dell’arte classica, come dalle raffinate eleganze gotiche; il corpo ossuto è consumato dalle sofferenze, eppure appare forte, con i muscoli tesi e la bocca semiaperta, come se stesse gridando le sue profezie; gli occhi sono incavati, lo sguardo intenso, quasi stravolto, dilaniato dalle sofferenze di asceta e dal travaglio fisico e spirituale.

Abacuc e Geremia non sono aggraziati, non hanno tratti piacevoli, ma manifestano un potente pathos. Qui si rivela la grandezza di Donatello: nel rappresentare una bellezza nuova, non legata all’aspetto esteriore, ma alla forza d’animo e alla profonda interiorità morale.

Nel periodo in cui lavora alle statue dei Profeti, negli anni tra il 1423 e il 1427 circa, Donatello si impegna anche nella realizzazione del fonte battesimale del Battistero di Siena, collaborando insieme a Lorenzo Ghiberti, Iacopo della Quercia(*) e altri affermati artisti dell’area toscana.

Nel suo rilievo bronzeo raffigurante il Convito di Erode ripropone un magistrale utilizzo della tecnica dello stiacciato, già sperimentata nel basamento del San Giorgio. In soli 7 cm di spessore crea sorprendenti effetti di  piani sovrapposti disponendo sul fondo un momento più lontano nel tempo, appena inciso, mentre le maggiori sporgenze del primo piano riguardano la narrazione successiva. Così, tra le arcate si scorge il servitore che mostra la testa del Battista a Salomé ed Erodiade, mentre nell’ampio spazio anteriore si narra l’episodio successivo, quando Erode e i suoi commensali guardano con ribrezzo la testa del Santo. Lo spazio vuoto lasciato nella parte centrale consente una maggiore percezione della sapiente costruzione prospettica, rivelata anche dalle linee di fuga della pavimentazione bicroma.

Anche in questo lavoro, oltre alla resa di uno spazio credibile e misurato, Donatello riesce a rivelare una gran partecipazione emotiva, in un crescendo di enfasi drammatica.

Tra il 1425 e il 1433 circa si associa a Michelozzo di Bartolomeo(*), artista  ben affermato nella città e nell’ambito della famiglia dei Medici.  Donatello può così intensificare i suoi contatti e con essi aumentano anche gli incarichi di opere prestigiose.

Insieme i due artisti realizzano anche lavori destinati al di fuori dell’area fiorentina, come il Monumento funebre del cardinale  Brancacci, per la Chiesa di Sant’Angelo in Nilo, a Napoli.

Questo sepolcro rielabora il modello di tomba trecentesca proponendo una distinzione tra elementi architettonici e ornamentazioni plastiche. Per queste ultime la partecipazione di Donatello è limitata al rilievo del sarcofago, mentre per le restanti parti si distingue la mano di Michelozzo, tendente a un costrutto solido e a un’accurata semplificazione formale.

Sciolta la “compagnia” con Michelozzo, Donatello continua da solo il suo percorso, impegnandosi in un continuo sforzo di auto-superamento, in una tensione dinamica tutta in divenire, che lo porta a raggiungere esiti di gran levatura artistica.

Nel 1433, l’artista riceve l’incarico di realizzare una delle due cantorie per la Cattedrale di Santa Maria del Fiore.

L’altra era stata affidata due anni prima a Luca della Robbia(*) ed entrambe vengono portate a termine nel 1438.

Ogni balconata è retta da cinque mensoloni decorati con foglie d’acanto, che scandiscono lo spazio del registro inferiore in quattro formelle; nel soprastante parapetto, anch’esso distinto in riquadri, trovano posto danzatori e musici intenti a lodare il Signore, come recita il Salmo 150.

Uguali per dimensioni, struttura compositiva e iconografia, le due opere si rivelano da subito differenti per spirito artistico.

Nella cantoria di Luca della Robbia, pervasa da un forte richiamo all’antico, i toni sono pacati e solenni; i personaggi, modellati secondo le tendenze naturalistiche del nuovo linguaggio rinascimentale, si stagliano in una ieratica monumentalità e restano  contenuti nei quattro riquadri scanditi da coppie di lesene corinzie scanalate.

Decisamente più concitati i ritmi del lavoro donatelliano, dove l’evocazione classica è limitata agli elementi decorativi, mentre una danza di  festosi putti anima il fregio del parapetto, senza subire alcuna interruzione dalle coppie di esili colonne, disposte anteriormente rispetto ai personaggi. Ad emergere è una forte propensione al movimento, accentuato anche dall’utilizzo della tecnica dello stiacciato: i personaggi sul fondo sono appena accennati , in modo da suggerire un effetto di visione sfocata dal dinamismo.

Anche in quest’opera il Donatello parte dall’ispirazione classica, per poi mettersi in gioco e sperimentare inedite e  originali soluzioni.  Qualche anno dopo, intorno al 1440, riceve da Cosimo de Medici  l’incarico di scolpire il David, l’eroe biblico assunto dai Fiorentini come simbolo delle libertà repubblicane e della lotta contro le oppressioni.

In questo bronzo cesellato con gran finezza, la luce è impiegata come strumento di modellazione delle masse e scivola sulle membra adolescenti del giovane, fino ad addensarsi ai suoi piedi, valorizzando l’effetto luminoso del materiale.

David è rappresentato nudo, in atteggiamento di riposo nel momento della vittoria, dopo aver tagliato la testa di Golia, riversa ai suoi piedi; la nudità si riferisce al passo biblico relativo alla liberazione dalla pesante armatura: l’eroe si affida soltanto a Dio e va incontro al gigante, armato della sola fionda; il curioso cappello allude all’attività di pastore e la ghirlanda che lo orna simboleggia la vittoria; gli alti calzari alati, attributi del dio pagano Mercurio, sollevano invece dubbi interpretativi.

L’elegante e sensuale bellezza del corpo asciutto, la grazia languida, quasi femminea, si spiegano con la previsione di una destinazione dell’opera a coronamento di una colonna: le sue fattezze, in questa posizione, perderebbero quell’eccessiva mollezza recuperando slancio e agilità, senza tuttavia rinunciare alla sensualità dell’insieme.

Donatello non concepisce il suo David né come un cavaliere medievale, né come un eroe classico, ma come un uomo del suo tempo, simbolo del trionfo dell’intelletto sull’irrazionalità e traduce queste convinzioni morali in un capolavoro dall’elegante compiacimento estetico.

Nel 1443 l’artista si reca a Padova restandovi fino al 1554. Questo soggiorno si rivela fondamentale per gli sviluppi artistici dell’area veneta segnando l’orientamento culturale dell’Italia nord-orientale.

A questo periodo di gran maturità espressiva risale il monumento equestre del Gattamelata,  innalzato per il capitano di ventura Erasmo da Narni, detto Gattamelata, valoroso condottiero dell’esercito veneziano, venuto a mancare nel 1443.

Il gruppo bronzeo si ispira alla grande statuaria romana, ma anche in questo caso Donatello non si limita alla ripresa dell’antico e va oltre, spogliando il suo personaggio di quella fiabesca aurea cavalleresca e rivendicandone la profonda umanità.

In questo senso, il monumento donatelliano appare una caratteristica creazione dello spirito rinascimentale:  in quanto celebrazione dell’attività terrena dell’uomo ed esaltazione del valore individuale nella storia, esso si pone come capostipite di una vasta serie di monumenti equestri eretti sino al XX secolo.

L’espressione ferma e risoluta che traspare nei severi tratti del volto del Gattamelata ne fa un ritratto naturale e psicologicamente profondo: il cavaliere tiene lo sguardo fiero fisso davanti a sé, come se fosse isolato in una sfera sovrumana. Anche la resa del corpo, tutt’uno con il cavallo, sorprende per il verismo e la credibilità, mentre la tecnica di fusione del bronzo dimostra la magistrale perizia di uno scultore che ama mettersi continuamente alla prova, cimentandosi nelle più diverse tecniche, espressive e materiche.

Rientrato a Firenze, nell’ultimo decennio della sua vita Donatello ha ormai maturato una concezione artistica talmente protesa all’affermazione dell’interiorità individuale, da andare al di là dello stesso ideale rinascimentale, fino a sgretolarne l’austerità delle forme.

Così, nella statua lignea della Maddalena penitente emerge tutta la sofferenza di una donna avanti negli anni e consumata dai digiuni. Maddalena trascina il suo corpo emaciato e avvicina le mani stanche per pregare; nel volto smunto, tra i rattoppi della pelle raggrinzita, gli occhi infossati sprigionano un’alta carica emotiva,  a cui concorre anche la vibrante frammentazione materica dell’insieme, accentuata dalla scelta non casuale del legno, materiale più adatto a una lavorazione tagliente, in modo da rivelare le durezze spigolose rivelano l’intenso dramma umano della donna.

Il pathos intenso e solenne di quest’opera suscita da subito clamore tra i contemporanei, consci della grandiosa potenza creativa e della modernità espressiva di Donatello. Il suo testamento artistico sta proprio nella rivoluzionaria volontà di trasgredire da ogni schema precostituito per rappresentare i valori più profondi della dignità umana; la sua eredità traspare nella capacità di descrivere una gamma vastissima di atteggiamenti e di moti dell’animo, per donare così ai personaggi scolpiti una mirabile ricchezza espressiva, lasciandovi confluire anche quel suo complesso sentimento d’inquietudine, teso a una ricerca artistica e umana tutta in divenire.

Mariaelena Castellano  

PER SAPERNE DI PIÙ …

Le Arti Maggiori

Le Arti Maggiori sono corporazioni artigiane nate nella Firenze del XII e del XIII secolo, quando il consolidamento delle principali attività induce i lavoratori di ogni categoria di mestiere a riunirsi in una forma di vita associata, regolata da statuti e fondata su una specifica organizzazione.

Prendono così vita le sette associazioni definite Arti Maggiori e costituenti il motore trainante dell’affermazione del potere fiorentino nella scena economica internazionale. Accanto ad esse, ma in posizione più marginale, dalla seconda metà del Duecento sorgono anche altre quattordici corporazioni, dette Arti Minori e caratterizzate da una vocazione più artigianale. Tuttavia, alla fine del secolo, in seguito a una serie di eventi politici, cinque Arti Minori ottengono la possibilità di aggiungersi a quelle Maggiori, che diventano dunque dodici.

Jacopo della Quercia (1371 ca. – 1438)

Lo scultore Jacopo di Pietro d’Angelo, detto Jacopo della Quercia per il natio borgo di Querciagrossa, presso Siena, parte da una formazione gotica, ispirata ai modi dei Pisano, per poi approdare a un linguaggio più sensibile alle nuove istanze naturalistiche della cultura rinascimentale.

Nel Monumento funerario di Ilaria del Carretto, realizzato nei primi anni del XV secolo, l’artista rivela questa sua fase di transizione. L’opera, in marmo di Carrara, consta di due parti: la cassa, ispirata alla tipologia del sarcofago romano, e il suo coperchio, scolpito con l’immagine della defunta, moglie del signore di Lucca, morta di parto nel 1405.

Se la parte basamentale dell’arca rivela un’esplicita evocazione classicheggiante, nella lastra con l’effigie della giovane donna permangono i riferimenti alla cultura gotica, come si evince dalle fitte pieghe della veste, finalizzate a una resa decorativa, più che veritiera; anche il cane adagiato ai piedi della defunta, con le sue fattezze sinuose e la coda arricciata, svela l’adesione al linguaggio d’Oltralpe. Tuttavia, la rigorosa regia compositiva dell’insieme, così come la sensibile resa ritrattistica s’inscrivono in una visione già di sapore rinascimentale.

Michelozzo di Bartolomeo  (1396-1472) 

Michelozzo di Bartolomeo Michelozzi, scultore e architetto fiorentino, con il suo operato si pone tra i protagonisti della prima stagione rinascimentale del Quattrocento. Oltre all’esperienza associativa con Donatello, va segnalata la sua collaborazione con Brunelleschi, di cui è anche allievo, e con Ghiberti per la realizzazione delle porte del Battistero.

Il linguaggio architettonico di Michelozzo non è semplice da definire, poiché si avvale di molteplici spunti e di originali reinterpretazioni personali. Egli parte da un compromesso tra il gusto tardogotico e quello rinascimentale, per poi elaborare i fecondi stimoli offerti dall’esperienza brunelleschiana. Il suo operato si svolge perlopiù in Toscana, in particolare a Firenze, dove dal 1444 si dedica all’edificazione di Palazzo Medici-Riccardi, destinato a diventare un modello di riferimento per l’architettura residenziale toscana del Quattrocento e del Cinquecento.

La struttura originaria, che subirà integrazioni e modifiche nei secoli successivi, ha una forma cubica con cortile centrale fornito di portici, archi e colonne al piano terreno, finestre a bifora lungo la muratura del primo livello e loggia architravata al secondo piano.

Anche l’esterno, sormontato da un importante cornicione, è scandito in tre ordini, differenziati nel rivestimento e nell’altezza che decresce man mano che si prosegue dal basso. Il pian terreno è caratterizzato da un marcato bugnato rustico, che si attenua nell’ordine intermedio, fino a scomparire quasi nel livello soprastante, dove i conci appaiono appena accennati. Ne deriva un risultato di grande eleganza e slancio, senza rinunciare all’effetto di fermezza e solidità costruttiva.

Luca della Robbia  (1400 ca. – 1482)

Lo scultore e ceramista Luca della Robbia è il capostipite di una famiglia di maestri artigiani specializzati in opere in terracotta invetriata policroma. L’artista, infatti, abbandona l’uso del marmo e dei materiali più pregiati per dedicarsi a un genere segnato da una maggiore malleabilità lavorativa e da un costo più contenuto.

L’argilla cotta viene rivestita da un sottile strato di smalto vetroso di colore bianco, diventando lucida e resistente. I personaggi restano bianchi, mentre lo sfondo viene dipinto d’azzurro e si utilizzano pochi altri colori per i dettagli. Questa tecnica è già conosciuta nei tempi antichi, ma Luca della Robbia la perfeziona con un preparato segreto, che ne decreta il successo.

Luca della Robbia, Madonna del                   roseto, 1460-70 ca.

Le opere in terracotta invetriata dei della Robbia, impostate su una salda trattazione di spazi e volumi, aderiscono ai nuovi stilemi della cultura quattrocentesca fiorentina. Statue, rilievi e decori della bottega robbiana, grazie ai più accessibili costi del materiale, consentono una rapida divulgazione dei modi rinascimentali, di cui rappresentano un originale contributo, caratterizzato da una gran maestria artigianale.