Non esistono le bugie a fin di bene, perché alla fine il bene le travolge, le assimila, le plasma e le trasforma in verità relative. Verità relative come quelle che custodiscono Nadia ed il suo piccolo Matteo, in questo secondo racconto “evaso” dalla penna della nostra Mariaelena. 

Un racconto che è di tutti ed è di nessuno.

Un racconto che è l’essenza di quel cordone ombelicale che lega per sempre una madre al proprio figlio.

Johnny Pollio

Un cielo di favole

Il rombo di un aereo in arrivo graffia il silenzio dei miei pensieri.

Un altro, già in volo, dipinge una lunga scia bianca nel cielo azzurro. Guardo questa densa striscia nebulosa, che man mano si dissolve. Vorrei poter far scomparire così anche tutti i miei dubbi, i segreti, le paure.

Lascio andare un sospiro, mentre i miei occhi sono inumiditi da lacrime a cui non consento di scorrere.

Mi sento osservata.

Oggi il Curreri che da Sorrento conduce all’Aeroporto di Capodichino è più affollato del solito.

Matteo è impegnato ad osservarsi intorno, guarda fuori dai finestrini.

Ogni tanto  si volta verso me. Mi vede taciturna, pensierosa,  quindi  riprende a guardare in altre direzioni.

Ormai è abituato a questi miei ostinati silenzi, quasi non ci fa più caso.

Prima si infastidiva, mi dava a parlare. Adesso sa che quando sono assorta conviene lasciarmi stare.

Tanto si tratta di una manciata di minuti, poi torno tra i viventi e scendo dal mio cielo di favole inventato per lui.

Guardo anche io fuori.

Un aereo plana spedito verso la pista d’atterraggio.

Saranno mesi che ci dirigiamo qui almeno un paio di pomeriggi a settimana.

“Mamma, secondo me questo è il suo aereo, che ne dici?”

Il  piccolo Matteo rompe il silenzio e indica il velivolo  impegnato nella fase di atterraggio.

Sfodera uno di quei suoi sorrisi pieni di vita. E´ così entusiasta da farmi sentire ancora più sbagliata.

L’autobus si accosta, siamo arrivati al capolinea, lo annuncia anche l’autista:

“Capodichino, ultima fermata! Naples airport!”

Nemmeno il tempo di scendere, che il mio bimbo  già si dirige verso l’ingresso dell’aeroporto.

Aumento il passo per raggiungerlo, mentre lui saltella felice tra il via vai di persone che affollano lo spiazzale.

«Mammaaa, non fare la lumaca, dai!”

Continua a camminare spedito.

Ha soli quattro anni e mezzo, ma è fornito di un buon senso dell’orientamento.

Del resto, conosce bene questo posto.

Dovrei sapermi destreggiare anch’io, invece ogni volta avverto un senso di spaesamento.

Sarà per tutta la situazione.

Costruire castelli di sabbia può andar bene fino a un certo punto, poi finisce che si sgretolano, insieme a tutte le fiabe e le fantasie.

Matteo meriterebbe molto di più di quel che riesco a dargli io.

Eppure è sempre così allegro.

Gli piace venire qui, si diverte a guardare le vetrine dei negozi, a far su e giù per le scale mobili.

Scruta con aria curiosa la gente.

Schiaccia fronte e nasino sulle ampie vetrate che danno sulla pista; guarda gli aerei, il transito delle navette.

Questo posto è il suo parco giochi, il suo paese dei balocchi.

Per me, invece, è il luogo in cui le menzogne inventate si scontrano bruscamente con la realtà.

«Mammina, sediamoci nella nostra sala!»

La nostra sala. Sì, perché questo aeroporto è un po’ come una seconda dimora per noi.

Una grande casa dove trascorriamo intere ore e dove, tra i negozi e le sale d’attesa, ormai abbiamo delle tappe fisse.

In primis, il McDonald,  la nostra sala, il grande salotto proiettato sul mondo, dove scegliamo quasi sempre lo stesso menù.

Ci accomodiamo e Matteo appena prende posto apre il suo zainetto. In men che non si dica il tavolo è invaso da macchinine, figurine e libretti da colorare.

Lo guardo mentre è concentrato a disporre le sue cose, a giocarci,  a rimetterle nello zaino, per poi riprenderle un’altra volta.

Dopo un po’ siamo di nuovo nei grandi spazi vetrati dove transitano viaggiatori, forze dell’ordine, hostess e addetti ai servizi.

Ci mescoliamo a loro.

Intorno a noi un microcosmo di persone alle prese con valigie, ritardi, attese, check in.

Noi no. Niente di tutto questo. Siamo degli intrusi.

Nessuna valigia, niente arrivi, né partenze.

O meglio, un arrivo c’è, ma immaginario.

Dio mio, come sono arrivata a questo punto?

All’inizio sembrava un’idea detta così, buttata fuori più per temporeggiare e per proteggere il mio bimbo da una verità troppo difficile da spiegare.

 

Poi ne è uscito fuori tutto un crescendo di bugie, inventate con grande abilità, tanto da crederci quasi anche io.

«Nadia, hai agito in buona fede, ma hai fatto un grave errore: non devi mai mentire a tuo figlio. Così facendo, lo confondi e lui non avrà più fiducia in te.»

Queste le parole pronunciate ieri da un’amica psicoterapeuta.

Saranno mesi che avevo in mente di chiederle un consiglio, ma ogni volta cambiavo idea.

Credevo di riuscire a gestire  tutto da sola, invece sentirmi dire le cose come stanno da una voce competente in materia, mi ha fatto acquistare più consapevolezza.

Ho compreso di non poter rimandare più, di dover interrompere questa farsa il prima possibile.

«Ai bimbi va sempre detta la verità. Anche se dolorosa, loro trovano il modo giusto per accettarla. E poi  ricordati che la percepiscono. Sono come una spugna: assorbono tutta la realtà da cui sono circondati, molto più di quanto  possiamo immaginare!»

Cosa avrà assorbito Matteo da questa nostra realtà?

Io e lui, in trenta metri quadri, al piano terra, in un monolocale giù la marina di Cassano, a Piano di Sorrento.

Io e lui, a trascorrere la sua infanzia  tra fili di biancheria stesa e  rimesse di barche; a guardare  i voli dei gabbiani e le lenze dei pescatori. E poi il mare. Per perderci nel suo orizzonte e lasciarci affondare dentro tutti i nostri sogni.

Io e lui, a muoverci sempre in autobus o a piedi, a passo lento e con il respiro veloce, salendo le ripide tese, che dalla spiaggia ci portano al centro abitato, tra i palazzi storici, i giardinetti, i vicoli caratteristici e gli affacci panoramici.

Quando invece arriviamo qui, a Capodichino, Matteo si lascia avvolgere dalla modernità di questa struttura aeroportuale, ne respira l’aura d’internazionalità. Avverte di trovarsi in una realtà territoriale diversa da quella più quieta in cui viviamo.

Spesso gli parlo di Napoli, di questa capitale europea a un passo da noi, così pulsante di vita ed energia, sempre in bilico tra il vecchio ed il nuovo, un crogiolo dove antiche tradizioni dialogano con vocazioni più avveniristiche.

Un dualismo che si ripropone anche qui, tra gli spazi aeroportuali siglati da un design  contemporaneo, in cui però fanno capolino  le divinità alate dei musei archeologici campani.

“Guarda queste statue, mamma!”

Gli racconto di dei con le ali e di eroi mitici, poi gli parlo di musei e di scultori.

Lui ascolta con interesse.

È bello trasmettergli quel che so. Mi fa sentire utile, importante.

Mi fa dare un senso a quella pergamena da 110 e lode, chiusa in un cassetto a prendere polvere, insieme a tutti i miei sogni di ieri.

Prima o poi avrò il coraggio di aprirlo quel cassetto.

Adesso c’è Matteo. È lui la mia priorità.

Mi arrangio con lavori di ogni tipo per arrivare a fine mese e per non fargli mancare nulla. Posso contare anche sugli aiuti della Parrocchia.

È dura.

A volte ho paura di non farcela, ma alla fine riesco sempre a rialzarmi, più forte di prima.

Ripenso al grande appartamento al centro di Sorrento, dove sono nata e dove ho vissuto fino a pochi anni fa.

Adesso lì ci abita soltanto mio padre.

“Nadia, mi hai dato un gran dispiacere. Da te non mi aspettavo una cosa del genere.”

Queste sue parole rimbombano ancora nella testa, nitide.

Non c’è giorno in cui non le ricordi almeno una volta.

Mi sembra  di risentire la sua  voce sprezzante.

Non gli ho risposto nulla, ma il giorno dopo  me ne sono andata di casa.

Chissà, se mia madre fosse stata ancora viva, forse le cose sarebbero andate diversamente.

Oppure no. In fondo è sempre stata succube del marito,  il padre-padrone,  severo ed autoritario capo famiglia; l’illustre giudice di pace, pronto a puntare il dito anche verso i  familiari.

Il suo verdetto nei miei confronti ha parlato chiaro:  colpevole  senza assoluzione.

Ho avuto un figlio senza far sapere  chi ne sia il padre.

Un figlio che porta il mio cognome e gli occhi blu del suo papà.

Un uomo complicato, ormai scomparso dalla mia vita e  mai informato dell’esistenza di Matteo.

Il mio, di padre, ha ragione: sono colpevole.

Per tutti gli sbagli, le fragilità, le paure e le bugie. Ma di una cosa, almeno, posso essere fiera.  Avrei potuto tener stretta la mia bella vita tra le quattro mura dell’attico di famiglia, magari con una degna professione in linea con i miei studi giuridici.

Adesso avrei un’esistenza completamente diversa, lontana dagli stenti e dalle privazioni di oggi.

Ma che vita sarebbe la mia  senza Matteo?

Questo nome non è stato scelto a caso, significa “dono di Dio”.

L’arrivo di un bimbo è sempre un dono.

E il mio piccolo Matteo è un grande dono, che non merita più bugie, se pur dette a fin di bene, per illuderlo di una vita più “normale”.

Che poi, in fondo, è una gran bella normalità anche la nostra.

Insieme siamo un duetto invincibile. Lui mi ha dato davvero tanto ed io ora gli devo la verità.

Vorrei avere il coraggio di confessargli tutto, di dirgli le cose come stanno:

“Tuo padre non è un pilota di aerei super impegnato, che vola senza sosta da un capo all’altro del mondo. Tuo padre non te l’ha portato via il lavoro, permettendoti soltanto di salutarlo dietro una vetrata, mentre plana o decolla dalla piste.”

Potrà mai perdonarmi per aver inventato questa storia?

Quando qualche mese fa, in un caldo pomeriggio d’estate,  ha iniziato a farmi domande su chi fosse il suo papà, sono andata in panico.

Eravamo al mare, stavamo sfogliando un libro illustrato con immagini di aerei. In un attimo mi è venuta fuori questa favola.

“Andiamo all’aeroporto per vedere papà?”

Qualche giorno dopo sono stata spiazzata da questa sua richiesta.

Va bene, andiamo.

Matteo si era  entusiasmato dei miei racconti sul suo genitore, sul pilota sempre indaffarato, che sale e scende da un aereo all’altro, senza mai fermarsi. A poco alla volta  aveva iniziato ad immaginarselo quasi come un supereroe.

Ho sentito il bisogno di non creargli troppe illusioni, di proteggerlo dalle mie disperate bugie:

“Tesoro, ma se andiamo, non potremo  vederlo … lui non scenderà dall’aereo!”

Matteo non si era perso d’animo, gli occhi sorridenti,  luccicanti per l’emozione di poter vedere l’aereo con il suo papà a bordo:

“Allora lo saluto da lontano con la mano! Tu mi dici qual è il suo aereo e io lo saluto! Che ne pensi?”

Da quel giorno siamo venuti qui sempre più spesso e ogni volta abbiamo aggiunto una pagina al copione di questo  film.

Una pellicola troppo lunga.

È arrivato il momento di uscire dalle fantasie e prendere atto della realtà.

Osservo Matteo mentre corre spedito. Sta giocando a nascondino con un bimbo giapponese qualche anno più grande di lui. Poi si avvicina a una signora anziana, le sorride. Lei gli dà a parlare, sembra divertita. Chissà di cosa staranno chiacchierando.

Abbiamo fatto tante conoscenze qui, in tutti questi mesi. Persone da ogni dove, con i loro bagagli di vite ed emozioni. Da ognuna di loro abbiamo appreso qualcosa.

“Mamma, guarda, arriva un aereo! È quello di papà?”

Matteo ha appena avvistato un aeroplano che sta atterrando.

Non  rispondo.

Lui si avvicina e mi ripete la domanda.

Che bel faccino che ha, così innocente, gioioso.

Gli accarezzo prima i capelli, poi le guance. Lo prendo in braccio e gli sussurro nell’orecchio:

“Lo sai che mamma ti vuole bene, vero?”

“Siiii! Anche io ti voglio bene! Allora, quello è l’aereo di papà, si o no?”

Respiro forte e raccolgo tutte le energie di cui ho bisogno.

“Matteo, devo dirti una cosa. Ho creato una favola, volevo divertirti e ho inventato la storia del papà pilota …”

Sorride.

Resta in silenzio per una manciata di secondi, per me interminabili.

Poi esclama, abbracciandomi: “Oh mamma, lo so già: io non ho un papà! Noi però facciamo finta che c’è e che fa il pilota, va bene?”

Mariaelena Castellano