“Credette Cimabue nella pittura tener lo campo / e ora ha Giotto il grido / sì che la fama di colui è scura.”

(Canto del Purgatorio, vv. 94-96)

Con questi versi Dante Alighieri celebra il primato artistico del grande innovatore della pittura italiana, Giotto di Bondone.

Il fatto che a tesserne le lodi sia un letterato vissuto nel suo tempo, fa ben comprendere l’alta considerazione goduta dall’artista già presso i contemporanei.

Eppure, di questa talentuosa personalità non si hanno notizie biografiche certe. La conoscenza delle opere non è supportata da documentazioni e soltanto tre risultano i lavori autografi, peraltro con estese partecipazioni di aiuti e collaboratori.

Giotto, probabile diminutivo di Ambrogio, nasce tra il 1265 e il 1266 circa, a Vespignano, paesino arroccato nella valle del Mugello.

Una volta trasferitosi con la famiglia nella vicina Firenze, il giovane entrerebbe a far parte della cerchia di Cimabue. Questa ipotesi è condivisa da gran parte degli studiosi, propensi a collocare la formazione dell’artista tra Firenze e Roma. Pertanto, oltre agli influssi cimabueschi, l’artista si avvicinerebbe anche all’orientamento classicista romano, a cui farebbe riferimento un suo ipotetico soggiorno nella capitale negli anni giovanili.

Forte di questi apporti, Giotto prende le distanze dalla secolare tradizione bizantina, per fondare un nuovo linguaggio, semplice, chiaro, più espressivo e naturalistico; un linguaggio che è sintesi e, al tempo stesso, superamento delle differenti visioni artistiche del suo tempo.

I personaggi dipinti da Giotto, finalmente dotati di stati d’animo reali, pulsano di vita; i loro corpi, grazie a sapienti effetti chiaroscurali, assumono un’inedita consistenza plastica, disponendosi in spazi credibili, costruiti tramite l’impiego della tecnica prospettica. Si tratta di una prospettiva intuitiva, ovvero priva di metodologia scientifica e pertanto nota come “a spina di pesce”, poiché non vi è un unico punto verso il quale far convergere le linee di fuga. Tuttavia, nonostante manchi la razionalità del calcolo matematico, Giotto riesce comunque a superare i limiti della bidimensionalità bizantina. 

Una delle sue prime opere è  il Crocifisso per la basilica domenicana di Santa Maria Novella, dipinto poco prima del 1290, in linea con le soluzioni adottate nelle croci lignee di Giunta Pisano e di Cimabue.

Giotto approda, però, a risultati decisamente più innovativi. Il suo Cristo è un uomo vero: il volto affilato con gli occhi socchiusi e la bocca semiaperta esprime sofferenza; il corpo, fornito di un misurato senso di gravità, non si forza in curvature innaturali, ma cade verticalmente. Le mani sono abilmente scorciate, mentre i piedi, secondo un’iconografia francese, sono conficcati con un solo chiodo, da cui scorre un fluttuo di sangue. Il ventre, non più schematizzato, è definito da morbidi effetti chiaroscurali, esaltati dall’individuazione di un’unica fonte di luce, collocata alla sinistra dell’osservatore.

Questa trattazione più drammatica del martirio soddisfa anche le esigenze dei committenti, i predicatori domenicani, intenti a esaltare la natura umana del Cristo, suscitando così un sentimento di pietà nei fedeli.

Giotto prosegue il suo percorso di innovazione con gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi, realizzati tra il 1290 e il 1292 circa.

Nel registro superiore, le scene ad ambientazione interna con Storie d’Isacco mostrano una salda concezione degli spazi e un’abile padronanza nella tecnica chiaroscurale.

Nel registro inferiore, nei successivi affreschi con Storie di San Francesco, realizzati con la sua bottega, l’artista propone architetture  articolate con scene spesso affollate e complesse. 

Giotto narra la storia del poverello di Assisi calandola nella dimensione storica del tempo, con personaggi e ambientazioni credibili.

Tuttavia, alcuni studiosi non approvano la paternità giottesca degli affreschi di Assisi. Se gran parte della critica italiana propende per questa attribuzione, tedeschi e angloamericani evidenziano la distanza tra la cifra stilistica dei cicli assisiati e quella dei successivi affreschi della cappella degli Scrovegni a Padova(*), indiscusso capolavoro dell’artista, attivo nella città veneta tra il 1303 e il 1305.

Di ritorno da Padova, tra il 1306 e il 1307 Giotto realizza la celebre Maestà di Ognissanti, oggi conservata nella Galleria degli Uffizi di Firenze.

Sebbene la pala presenti il tradizionale fondo in oro, essa si avvale anche di una visione tridimensionale, definita dall’articolato trono goticheggiante, ornato da motivi cosmateschi.

La Madonna e il Bambino benedicente, di dimensioni maggiori, sono circondati da angeli, santi e profeti. I loro corpi emergono dai soprastanti panneggi e se ne avverte tutto il vigoroso plasticismo, caratterizzato da un potente chiaroscuro.

I volti presentano una toccante espressività: si noti il sorriso abbozzato dalla Vergine, dallo sguardo volutamente obliquo, pensato per l’originaria collocazione della tavola nella parte destra del tramezzo, nella chiesa fiorentina di Ognissanti. Nell’edificio è tutt’oggi conservato un Crocifisso giottesco, mentre una terza opera del pittore, raffigurante la Morte della Vergine, attualmente non più nella chiesa, è custodita nei Musei Statali di Berlino.

Nei decenni successivi, Giotto è attivo con la sua bottega perlopiù a Firenze, ma anche in altri centri italiani. In questo periodo, l’artista si volge a una visione più raffinata della realtà, lasciandosi ispirare anche dai motivi gotici, senza rinunciare alle salde volumetrie e ai potenti effetti chiaroscurali caratterizzanti il suo linguaggio. Ne derivano opere segnate da più delicate cromie e preziosismi decorativi, dove le corporature slanciate dei personaggi si dotano di pose flessuose ed eleganti.

Tali orientamenti si rivelano in uno dei più alti esiti della maturità dell’artista: i cicli di affreschi realizzati per la Cappella Peruzzi e per la Cappella Bardi, entrambe situate nella chiesa fiorentina di Santa Croce.

Si tratta di due interventi realizzati in tempi diversi: le Storie di San Giovanni Battista e di San Giovanni Evangelista, nella Cappella Peruzzi, sono collocabili intorno al 1314-15, mentre le Storie di San Francesco, nella Cappella Bardi,  si riferiscono a un periodo compreso tra il 1317 e il 1328.  

Negli affreschi della Cappella Peruzzi, nonostante lo stato conservativo non ottimale, si possono ben cogliere la sapiente regia compositiva di sapore padovano e la più incisiva vena espressiva nella resa emozionale. Questi caratteri raggiungono un vertice assoluto nei successivi affreschi della Cappella Bardi, dove i personaggi si distinguono per le differenti gestualità, cariche di una vigorosa drammaticità. 

Si osservi la toccante scena dei Funerali di Francesco, dove i frati, commossi, attorniano il cadavere del loro Santo: ognuno di essi assume una posa specifica, in un crescendo di tensione emotiva. La narrazione è qui investita da una semplicità disarmante in cui la morte viene descritta con gran naturalezza, assumendo un carattere intimo e familiare. 

Tra il 1314 e il 1320, Giotto è di nuovo ad Assisi per decorare due cappelle e il transetto destro della chiesa inferiore di San Francesco. I motivi ornamentali risentono qui di una maggiore adesione ai preziosismi gotici, a dimostrazione di come l’Ordine francescano abbia messo da parte il suo antico ideale di povertà.

Inoltre, alcune fonti attestano la presenza dell’artista a Napoli, al servizio di re Roberto d’Angiò, tra il 1328 e il 1333. Al soggiorno partenopeo segue una probabile breve permanenza a Bologna, prima del suo definitivo rientro a Firenze, dove dopo l’alluvione del 1333 è chiamato a sovrintendere alle opere architettoniche della città.

In particolare, spetta a lui il primo progetto del campanile del Duomo, ancora oggi conosciuto come Campanile di Giotto. Si tratta di una torre a pianta quadrata, retta da quattro massicci pilastri angolari e rivestita da marmi bianchi, rosacei e verdi.

L’opera è ancora in fase di costruzione quando l’artista è colto dalla morte, nel 1337. La direzione dei lavori passa così ad Andrea Pisano, che prosegue l’edificazione del campanile rinforzandone la base inferiore. Pare, infatti, che l’illustre pittore abbia sbagliato i calcoli statici e si tramanda, inoltre, che proprio la tensione per la consapevolezza dell’errore, gli abbia causato la morte.

L’intera città partecipa alle esequie dell’illustre conterraneo, evocando l’intensa sensibilità espressiva e la portata innovativa di un artista rivoluzionario, già proiettato alla modernità.

Mariaelena Castellano

(Immagine di copertina: Ritratto di Giotto, di anonimo del XVI secolo, Parigi, Museo del Louvre)

PER SAPERNE DI PIÙ …

LA FORMAZIONE DI GIOTTO: LEGGENDE E ANEDDOTI SUL GRANDE MAESTRO

Per secoli, l’incontro tra Cimabue e il giovane Giotto è stato tramandato seguendo il passo riportato da Giorgio Vasari nelle sue Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, risalenti al 1550:

”E così avvenne che un giorno Cimabue, pittore celebratissimo, trovò nella villa di Vespignano Giotto, il quale, in mentre le sue pecore pascevano, aveva tolto una lastra piana e pulita e, con un sasso un poco appuntato, ritraeva una pecora di naturale, senza esserli insegnato modo nessuno altro che dallo estinto della natura”.

Questo racconto ha alimentato l’immaginario dei più, come mostra anche la scena pastorale riportata ancora oggi sulle confezioni di pastelli che prendono nome dall’artista.

In realtà, oggi la critica tende ad accantonare la narrazione del Vasari, ripresa  anche da altri autori, considerandola un’invenzione letteraria priva di alcun fondamento storico.

Un altro aneddoto sulla vita di Giotto racconta del desiderio di papa Bonifacio VIII di farsi ritrarre da un valido artista.

Pertanto, il pontefice invia dei funzionari di fiducia per tutto il territorio italiano, alla ricerca di chi potesse esaudire questa richiesta. Anche Giotto, noto per aver realizzato da poco il Crocifisso di Santa Maria Novella, viene interpellato da un messo papale, che gli chiede di  mostrargli il suo dipinto migliore.

Il pittore, per tutta risposta, dipinge un cerchio perfetto a mano libera, a dimostrazione di tutto il suo straordinario talento artistico.

 Inoltre, sempre il Vasari ci narra che…

“Dicesi che stando Giotto ancor giovinetto con Cimabue, dipinse una volta in sul naso d’una figura che esso Cimabue avea fatta una mosca tanto naturale, che tornando il maestro per seguitare il lavoro, si rimise più d’una volta a cacciarla con mano pensando che fusse vera, prima che s’accorgesse dell’errore.”

Questi racconti, se pur leggendari, attestano la  gran fama di Giotto e della sua pittura veritiera.

Del resto, oggi la notorietà dell’artista va oltre la dimensione terrestre: a lui sono stati intitolati un cratere sulla superficie di Mercurio e un asteroide: il “7367 Giotto”.

DENTRO L'OPERA

LA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI  – Padova  (1303-1305)

Nei primi anni del XIV secolo, Giotto è a Padova per affrescare la Cappella degli Scrovegni, un piccolo edificio rettangolare voltato a botte, in origine annesso a un monumentale palazzo sorto sui resti di un anfiteatro romano. L’intero complesso appartiene alla famiglia degli Scrovegni, arricchitasi negli anni attraverso la pratica dell’usura.

Il committente della cappella, Enrico Scrovegni, fa innalzare questo tempietto non solo come espiazione dei peccati paterni, ma anche per legittimare il potere della propria famiglia, utilizzandone le ricchezze accumulate per far dono alla città di un’opera religiosa.

Giotto interpreta i racconti dei vangeli calandosi nelle vicende narrate con una sorprendente enfasi espressiva, avvalorata da una magistrale disposizione delle scene e da suggestivi effetti chiaroscurali.

Pareti e soffitto sono interamente rivestiti da affreschi e decori in una mirabile fusione tra  spazio reale e spazio dipinto.

La volta simula un cielo blu, dove trovano posto dieci tondi con i busti del Cristo, della Vergine, del Battista e di sette profeti. Sulle pareti, invece, si stagliano lungo tre registri gli affreschi con Storie di S.Anna e S.Gioacchino, Storie di Maria e Storie di Gesù, mentre la controfacciata ospita un monumentale Giudizio Finale.

Giotto si occupa di tutti i dettagli. Ogni scena è separata dall’altra da cornici orizzontali e da bande verticali che simulano un rivestimento marmoreo; in particolare, le bande presentano eleganti giochi cosmateschi e decori vegetali. Nella zoccolatura alla base delle pareti,  personificazioni di Vizi e Virtù sono raffigurate in monocromo, come fossero sculture marmoree.

Il racconto evangelico si snoda in una sequenza cronologica rivelando, episodio dopo episodio, il percorso divino della Salvezza, che trova solenne compimento nel Giudizio Finale della parete d’ingresso. I personaggi popolano spazi costruiti con grande efficacia prospettica e definiti da una studiata scenografia compositiva.

Giotto riscrive la storia del Salvatore attraverso un linguaggio caratterizzato da un’intensa verve comunicativa, in cui emergono sentimenti forti e profondamente umani. Si pensi alla scena della Cattura del Cristo, dove Giuda si avvicina al suo Maestro per baciarlo. Il volto austero di Gesù esprime rassegnazione e drammaticità, mentre intorno a loro discepoli e soldati si dispongono in una sapiente distribuzione prospettica, dove trovano voce anche altri episodi, che tuttavia non distolgono l’attenzione dell’osservatore dalla scena principale del bacio del traditore.

Nel Compianto sul Cristo morto, la tensione drammatica svelata nella narrazione della Passione raggiunge il culmine espressivo nel toccante accostamento del volto sofferente di Maria a quello dell’amato Figlio.

E´ qui che converge il nostro sguardo, veicolato dall’andamento scosceso della collina che degrada verso i due personaggi. L’ambientazione è volutamente spoglia, come a voler partecipare all’evento luttuoso, segnato da un intenso pathos e da una forte gestualità. Anche gli angeli, che popolano un cielo finalmente azzurro e non più dorato, sconfortati, si disperano: gemono, si tirano i capelli, si graffiano le guance. Le due figure di spalle, inoltre, salde come rocce, occupano lo stesso punto di vista di chi guarda l’opera, creando un singolare effetto di coinvolgimento visivo.

Nel ciclo della Cappella degli Scrovegni, Giotto propone anche il primo bacio dipinto nella storia dell’arte: quello tra Sant’Anna e San Gioacchino, nella scena dell’Incontro alla Porta Aurea.

I genitori di Maria si ritrovano ai piedi dell’ingresso di Gerusalemme, per raccontarsi il sogno con cui è loro annunciata l’imminente nascita di una figlia.

A occupare tutto lo scenario è la monumentale Porta Aurea, decorata con cornici dorate, le cui fattezze sono con ogni probabilità ispirate all’Arco di Augusto di Rimini. Intorno alla coppia, un pastore sulla sinistra e le amiche di Sant’Anna, disposte nell’entrata ad arco della Porta. Tra queste, una donna ammantata di nero, che secondo gli studiosi, potrebbe alludere alla personificazione della Sinagoga, luttuosa per il vicino avvento del Cristianesimo. In primo piano, il mesto abbraccio dei coniugi, suggellato da un bacio affettuoso, che conferma l’accurata resa della sfera sentimentale dei personaggi.

Per la cappella, Giotto realizza anche un crocifisso, oggi esposto nel Museo Civico di Padova. Anche qui, come nell’opera di Santa Maria Novella, si pone risalto all’umanità del Cristo sofferente, mostrato nella sua drammatica corporeità, con il capo reclinato in segno di abbandono.

I sapienti effetti chiaroscurali regalano intensità alla scena, pervasa da una luce soffusa che proviene dalla destra e che, in particolare, inonda le fitte pieghe del perizoma trasparente di luminescenze auree.

PER SAPERNE DI PIÙ …

 I GIOTTESCHI

L’esempio di Giotto fornisce preziosi stimoli ai pittori del Trecento italiano, che si adeguano ai suoi nuovi valori spaziali e volumetrici con interpretazioni diverse a seconda dei luoghi e delle personalità artistiche.

In città come Firenze e Assisi, dove il maestro risulta particolarmente attivo, fioriscono cerchie di suoi seguaci, che oltre a imitarne lo stile, ne enfatizzano alcuni aspetti in chiave innovativa. È il caso del fiorentino Taddeo Gaddi (1290 ca. – 1366), ritenuto tra gli allievi più rinomati di Giotto. Egli ne ripropone la salda impostazione spaziale puntando al contempo  all’introduzione di elementi innovativi, come si può evincere nell’Annuncio dei pastori, ritenuto il primo notturno nella storia della pittura italiana.

La scena fa parte del ciclo di affreschi con Storie della Vergine e dell’infanzia di Cristo,  realizzati per la cappella Baroncelli, nella chiesa di Santa Croce. Qui l’artista rivela tutta la sua singolare verve inventiva, aprendosi a  felici momenti narrativi resi attraverso uno stile enfatico, avvalorato da singolari effetti luministici.

A Firenze, tra il 1341 e il 1346 risulta poi attestata l’attività del giottesco Maso di Banco, distintosi per le sue composizioni  monumentali, scandite da cromie tenui e luminose. Tra le sue più alte testimonianze figura il ciclo con Storie della vita di San Silvestro, nella cappella Bardi, sempre in Santa Croce, in cui la sapiente regia compositiva dell’artista crea un mirabile senso di ampiezza.

A Tommaso di Stefano, più conosciuto come Giottino, documentato nella città toscana nel settimo decennio del Trecento, è attribuita la nota Pietà di San Remigio. L’opera, oggi conservata presso la Galleria degli Uffizi, si distingue per la studiata articolazione spaziale, per la calda intensità cromatica e per l’ardita vena espressiva dei personaggi.

Anche ad Assisi, come già evidenziato, l’influsso giottesco riscontra un’ampia diffusione. Nella prima metà del Trecento prosegue l’opera decorativa della Basilica di San Francesco ed è in questa sede che convergono anche pittori  umbri attratti dalla solidità spaziale, dal senso di naturalezza e dall’espressività di Giotto.

Spostandoci a Rimini, qui l’artista realizza degli affreschi oggi perduti,  la cui eredità pone le basi alla fioritura di un filone pittorico votato al suo linguaggio. Gli echi di quest’orientamento  giungono anche in altre località della Romagna e delle Marche, con esiti segnati da un tono devozionale e mesto.

A Padova, l’esperienza pittorica della Cappella degli Scrovegni crea significative premesse per una ragionata rielaborazione del linguaggio giottesco. Tra gli artisti attivi nella città veneta, spicca la personalità del veronese Altichiero, attento alla resa dei particolari, così come alla solidità spaziale delle composizioni. Nella vicina Venezia, invece, più legata all’Adriatico, che non alla terraferma, se pur il linguaggio di Giotto offra interessanti spunti iconografici, a prevalere tra i pittori locali è ancora la sontuosità bizantina, come può attestare l’opera del noto Paolo Veneziano.

  

Restando nel Veneto, singolare risulta l’esperienza di Tommaso da Modena, documentato per diversi anni a Treviso, dove  si occupa della decorazione del capitolo dei domenicani, annesso alla chiesa di San Niccolò, raffigurando quaranta frati intenti a studiare e meditare nelle loro celle. Tra le scene si segnala quella del cardinale Ugo di Provenza, nella cui raffigurazione emerge la prima apparizione pittorica ad oggi conosciuta degli occhiali da vista. L’attenzione ai dettagli descrittivi e alle fisionomie dei personaggi, così come il tono intimistico, fanno di questo ciclo uno dei più originali esiti della pittura veneta del XIV secolo.