Tra il 480 e il 450 a.C., in quella che si può considerare una fase di transizione dall’età arcaica al pieno classicismo, l’arte greca vive un momento di grande evoluzione, in cui si afferma uno stile definito “severo”.

Probabilmente, tale nomenclatura fa riferimento agli aggettivi durus, rigidus e austerus, adoperati dagli storici del tempo per descrivere il nuovo e più veritiero orientamento artistico.

Come per il periodo arcaico, anche per quello severo ad oggi non risultano pervenute testimonianze pittoriche. Tuttavia, attraverso l’attività di vasai e ceramografi possiamo conoscerne i principali progressi, riscontrabili nelle prime sperimentazioni dello scorcio e della sovrapposizione di piani, con il raggiungimento di una più ragionata e monumentale rappresentazione dello spazio.

Ma è nell’arte plastica che si manifesta maggiormente la maturazione stilistica di questi decenni: gli scultori tendono a rompere con la frontalità e con l’immobilismo statico dell’età arcaica, per raggiungere una piena corporeità, basata su un accurato studio dell’anatomia umana e su una concezione più vitale e dinamica.

La testa, non più appiattita nella parte alta,  conquista una sua sfericità senza avvalersi dell’espediente del sorriso arcaico, utilizzato finora per fornire un’impressione di maggiore rotondità. Gli occhi e la bocca sono posizionati in modo più corretto; le palpebre assumono consistenza e anche le labbra risultano più carnose; le ciocche della chioma appaiono morbide, i riccioli naturali. La massa muscolare è armoniosa e la figura, impostata con spalle larghe e gambe snelle, acquista un’evidente tridimensionalità.

Inoltre, si prendono in considerazione le questioni dell’equilibrio e della gravitazione, riflettendo su una maggiore varietà di pose e azioni.

Una delle prime opere inauguranti questa fase è l’Efebo di Kritios, una statua in marmo rinvenuta nell’acropoli di Atene e riferibile al 480 a.C. circa.

Nell’opera viene meno quella rigidità tipica dell’arcaismo e si fa strada una maggior naturalezza, grazie anche all’applicazione del principio di ponderazione, in base al quale il peso del corpo poggia su una sola gamba.

Kritios, inoltre, collabora con il collega Nesiotes per la realizzazione del celebre gruppo bronzeo dei Tirannicidi(*), oggi noto soltanto attraverso copie marmoree.

Mentre in età arcaica si adoperava in gran parte il marmo, il materiale privilegiato dagli artisti severi è il bronzo(*), che essendo più leggero e facilmente modellabile evita l’impiego di sostegni esterni e consente una maggiore libertà operativa.

Tra i bronzisti dello stile severo si segnala la significativa personalità di Mirone, nativo di Eleutere in Beozia e attivo tra il 480 a.C. e il 430 a.C.

Mirone può definirsi artista preclassico, con una fiorente produzione scultorea, ampia e varia, svolta in prevalenza ad Atene e incentrata sullo studio del movimento corporeo.

Attraverso la sua opera egli punta a esprimere  la tensione muscolare di un istante estrapolato dal movimento in atto.

È quanto emerge, in particolare, nel celebre Discobolo (“lanciatore di disco”), eseguito in bronzo nel 450 a.C. ca. L’originale, andato perso, è stato oggetto di diverse copie romane in marmo, tra cui questa che propongo nell’immagine, che è tra le più note, esposta a Roma, nel Museo Nazionale Romano.

Lo scultore rappresenta l’atleta nel momento che precede il lancio del disco.

Il busto si piega in avanti e segue una rotazione nella direzione del braccio sollevato. Quest’ultimo forma un arco insieme all’altro braccio e alla gamba sinistra.

Il peso del corpo gravita sulla gamba destra,  alla base di un’altra linea immaginaria che prosegue fino al capo, girato per seguire la torsione del busto.

Lo schema armonico  fornito da Mirone si configura come modello ideale del corpo umano per questa tipologia di movimento. Tuttavia, un limite resta nell’imposizione di un punto di vista privilegiato affinché si possa godere di una piena fruizione dell’opera.

 

Tra le principali testimonianze di originali bronzei pervenutici dall’età severa, segnalo anche il celebre Auriga, realizzato da Sòtade intorno al 475 a.C.

La statua, alta 180 cm, faceva parte di un gruppo scultoreo realizzato per celebrare la vittoria di Hièron nella corsa dei carri disputata a Delfi, in occasione dei giochi pitici in onore di Apollo Pizio.

Il giovane atleta dai capelli finemente cesellati si erge solenne e austero alla guida del carro vittorioso. Tra le fitte pieghe dell’architettonico chitone s’intravedono i piedi divaricati che, insieme al  leggero incurvamento all’indietro del busto, mostrano la volontà di superare i limiti della staticità arcaica.

Altro celebre originale in bronzo è il monumentale Zeus o Poseidon, rinvenuto nel 1926 nei pressi di Capo Artemisio, nell’isola Eubea, accanto a un relitto romano.

La statua, d’incerta attribuzione, forse opera di Kalamis(*) o di un artista della sua cerchia, è oggi conservata nel Museo Nazionale di Atene ed è databile al 460 a.C. ca.

Il dio è colto nel momento in cui sta per lanciare il fulmine, nel caso sia Zeus, oppure il tridente, se si tratta invece di Poseidon. Il mancato recupero dell’oggetto, infatti, non consente di identificare con esattezza la divinità.

Il corpo trova un bilanciamento attraverso la divaricazione delle gambe, con un piede ben poggiato a terra e l’altro sollevato sulla punta, in modo da indicare un potenziale senso di movimento. Tuttavia, il dinamismo qui suggerito non è confermato né da una tensione della muscolatura, né da un’espressione più partecipe nel volto. Inoltre, il punto privilegiato per ammirare l’opera resta ancora quello frontale, come nella statuaria arcaica.

Un decennio dopo la realizzazione della statua di Capo Artemisio prendono forma anche  i rinomati Bronzi di Riace, attribuiti uno ad Angelada il Giovane, l’altro ad Alcamene il Vecchio.

I due Bronzi sono stati rinvenuti nel 1972 nel mar Ionio, nei pressi della località di Riace, in provincia di Reggio Calabria.

Si tratta di una scoperta straordinaria, che integra le conoscenze e gli studi relativi alla scultura dello stile severo.

Le due opere, di notevole qualità esecutiva, presentano un’impostazione molto attenta al bilanciamento corporeo e alla ricerca di un equilibrio dinamico.

Le statue, identificate con le denominazioni Bronzo A e Bronzo B, raffigurano due guerrieri, in origine reggenti scudo e lancia, e si è pertanto fatta strada l’ipotesi facessero parte di un gruppo di combattenti, identificati nei leggendari Sette contro Tebe(**).

Entrambi i Bronzi, conservati nel Museo Nazionale di Reggio Calabria, hanno gli occhi in pietra e avorio, mentre labbra e capezzoli sono in rame rosso. Il Bronzo A, inoltre, è l’unico esempio nella statuaria antica a essere fornito di denti, realizzati in argento.

Infine, tra i capolavori della plastica severa, i rilievi del Tempio di Zeus a Olimpia(*) costituiscono un mirabile esempio di raffinata e composta monumentalità, preludio dell’imminente maturazione artistica di età classica.

Mariaelena Castellano

PER SAPERNE DI PIÙ…

(*) LA TECNICA DELLA SCULTURA IN BRONZO

Il bronzo, come si è già detto nella lezione sull’Età dei metalli, è una lega di rame e stagno. Queste due componenti vengono miscelate in modo differente, a seconda delle lavorazioni desiderate.

Per realizzare una scultura in bronzo, si ricopre un modello in argilla (“anima”) con un sottile strato di cera, per poi inserire il tutto in un involucro, anch’esso d’argilla o di gesso, detto “forma” o “stampo”, su cui si praticano dei fori. Quindi, si procede con la cottura, durante la quale la cera si scioglie e fuoriesce dai fori.  Ecco perché questa tecnica prende il nome di “fusione a cera persa”.

Il passaggio successivo consiste nel versare al posto della cera del bronzo fuso che, una volta raffreddato, viene rifinito con cura, dopo aver rotto lo stampo esterno. Questa lavorazione è conosciuta come diretta, mentre quando si utilizza soltanto un modello in cera, senza una sottostante “anima” argillosa, si versa più bronzo e la metodologia operativa è denominata “ tecnica indiretta”.

IL MITO DEI SETTE CONTRO TEBE

I sette contro Tebe” è un mito reso famoso dalla tragedia di Eschilo e narra del tentativo di Polinice, figlio del re di Tebe, Edipo, di riappropriarsi del regno paterno, usurpato dal fratello Eteocle.

Polinice, forte dell’appoggio del re di Argo, sceglie sei valorosi guerrieri a cui si unisce per assaltare le sette porte della città. Eteocle, avendo appreso che tra i combattenti  vi è anche suo fratello,  sa di doversi  scontrare con lui e comprende  che entrambi troveranno la morte, così come aveva loro predestinato il padre, Edipo. Il re, infatti, si era adirato nei confronti dei due figli che, una volta scoperta la storia incestuosa che gravava sulle sue spalle, ne avevano chiesto l’allontanamento dalla città.

I Tebani riescono a respingere l’attacco, ma Eteocle e Polinice perdono la vita nello scontro fratricida. Muoiono uno per le mani dell’altro attuando così la maledizione inferta dal padre.

Il drammaturgo Eschilo, iniziatore della tragedia greca nella sua forma più matura, riprende il mito de “I sette contro Tebe”,  rappresentato per la prima volta ad Atene  nel 467 a.C., proponendo in tutta la sua drammaticità la questione delle relazioni tra il singolo agire e le colpe progenie.

(Nell’immagine la messa in scena della tragedia eschiliana, nell’anno 2017, nel teatro greco di Siracusa.)

DENTRO L'OPERA!

(*) LA DECORAZIONE SCULTOREA DEL TEMPIO DI ZEUS AD OLIMPIA

Nella I metà del V secolo a.C., a Olimpia, si innalza un tempio dedicato a Zeus, che diventa presto un celebre luogo di culto. Spetta a un solo artista, convenzionalmente noto come “Maestro di Olimpia”, l’intero ciclo decorativo scultoreo dell’edificio, tra le più alte realizzazioni dello stile severo. Le scene raffigurate nei fregi  e nei due frontoni, tratte dal vasto repertorio mitologico ellenico, intendono celebrare la lotta eroica dell’uomo e la supremazia dei suoi valori morali.

Nel frontone orientale sono illustrati i preparativi della gara fra Pelope e Oinomaos, ossia la storia di un mito tratto dal poeta Pindaro. Si tratta di una scena resa con pacatezza misurata e con solenne equilibrio, se pure sottilmente pervasa dall’inquietudine dell’attesa.

Dai ritmi pacati e austeri del frontone orientale si passa  al linguaggio più concitato e dinamico di quello occidentale, che raffigura invece un tema caro a poeti e artisti: la lotta tra Lapiti e Centauri, esseri ibridi, per metà uomini e metà cavalli. Lo scontro allude al contrasto tra il Bene e il Male, tra la ragione e l’irrazionalità,  ovvero tra i Greci e i barbari.

Nelle dodici metope che decoravano il tempio, di cui purtroppo poche risultano ben conservate, è rappresentato il mito di Eracle. Le sue celebri “fatiche” sono descritte con varietà compositiva e, a seconda della scena raffigurata, si passa dalla tensione alla quiete riuscendo a cogliere con grande abilità i vari stati d’animo dei personaggi. 

In questo straordinario ciclo scultoreo, il Maestro di Olimpia propone un linguaggio artistico che si distingue per una maggiore tendenza alla morbidezza del modellato, nonché per gli studiati ritmi compositivi e per l’alta qualità esecutiva.

VISITIAMO!

L’AFRODITE SOSANDRA 

A Kalamis, artista forse della Beòzia o dell’Attica, attivo tra il 480 e il 440 a.C., oltre all’incerta attribuzione della divinità di Capo Artemisio, sono riferibili altre opere scultoree, come la maestosa Afrodite Sosandra, realizzata intorno al 465 a.C. per essere collocata lungo la via d’accesso dell’acropoli di Atene.

Perso l’originale bronzeo, la statua è stata ripresa in più copie romane, tra le quali una delle più note, risalente agli inizi del III secolo d.C., è custodita nel Museo Archeologico di Napoli, nella sezione Baia. Questo esemplare marmoreo, infatti, è stato rinvenuto a Baia, l’antica Baiae dei Romani, oggi frazione di Bacoli e parte dei Campi Flegrei. La località si distingue per il ricco patrimonio archeologico, noché per la bellezza paesaggistica del suo golfo, antico cratere vulcanico per metà eroso dal mare.

In età repubblicana Baia fu meta di soggiorno per numerosi patrizi romani, come attestano i cospicui resti di ville e ninfei, in parte sprofondati sotto il livello del mare a causa dei fenomeni bradisismici che caratterizzano la zona. 

Tra le antiche vestigia pervenute, figura appunto questa celebre copia dell’Afrodite Sosandra, il cui attributo allude al potere salvifico della divinità: l’Afrodite “che salva gli uomini”.

Completamente avvolta nel suo pesante mantello, fittamente pieghettato e impostato con una solidità architettonica, la dea appare in tutto il suo severo splendore, se pur con un sorriso lieve, quasi impercettibile, come ebbe a dire lo scrittore greco Luciano di Samosàta. Nonostante dalla veste fuoriesca soltanto il volto, gli atteggiamenti del corpo risultano comunque percepibili , così come risulta chiaro l’intento dell’artista di conferire una maggiore spazialità, indicata anche dal braccio sinistro piegato e proteso in avanti o dalla mano destra, che dall’interno preme sulla stretta del marmo.

Sempre nel Museo Archeologico di Napoli si possono ammirare anche le copie romane di due  statue bronzee greche dello stile severo. Si tratta dei celebri Tirannicidi realizzati tra il 477 e il 476 a.C. da Kritios e Nesiotes  e raffiguranti Armodio e Aristogitone, gli uccisori del tiranno Ipparco.

I due uomini, colti nell’atto di scagliarsi contro il despota, incarnano il modello del cittadino ideale, disposto a rischiare la vita per portare avanti il principio di libertà. Le posture dei due uomini convergono verso un unico punto, poiché in ognuno la gamba interna è portata avanti, mentre quella esterna arretra. Questa scelta dona più naturalezza al gruppo scultoreo superando i limiti del privilegio della veduta frontale. Tuttavia, persiste ancora un marcato senso di rigidità, comprovante l’appartenenza dell’opera al linguaggio severo.