È un momento difficile, frutto del virus che incalza, ma anche di ritardi, di sottovalutazioni, di errori e di una marea di silenzi (questi ultimi, in special modo, da parte di chi aveva il dovere, come forze di opposizione, di pungolare, far riflettere e bilanciare quelle di maggioranza e non l’ha fatto).

È un momento difficile in cui, però, deve provare a salvarsi il salvabile e per questo serve solidarietà.

Solidarietà, però, in tutti i sensi.

Mettere da parte l’idea che si possa passare sulla chiusura della scuola, ma non su quella dei ristoranti; che si possa passare sulla chiusura dei ristoranti, ma non su quella delle palestre; che si possa passare sulla chiusura delle palestre, ma non su quella dei teatri o delle discoteche o dei negozi e via discorrendo.

Al primo accenno di rispolverare i lucchetti, ci sarebbe voluto un richiamo alle inadempienze dei mesi scorsi e si sarebbe dovuto levare un altruistico grido di “chiudete tutto”.

Così, magari, le cabine di comando, tirate per le orecchie e per la giacchetta, avrebbero studiato anche la notte per recuperare un po’ di tempo perso (e di soldi pubblici, invece, buttati a cacchio) e far uscire l’indicazione di una strada alternativa.

Un piano B, ove ci fosse.

Invece ho sentito tanti, nei giorni scorsi, invocare o plaudire ad una chiusura nella convinzione di evitarne un’altra (la propria o quella a lui più cara) e questo non ha consentito di partire con il piede giusto nell’imboccare di nuovo il tunnel del (quasi) lockdown.

Egoismo, spirito di conservazione, autoprotezione, chiamatelo come volete, ma è stato qualcosa di molto lontano dalla solidarietà, specie intesa in senso morale.

È lo stesso sentimento che si è trasformato, per strada, in rabbia e frustrazione e che sembra qualcosa di inconciliabile con il sentimento del rispetto per salute di se stessi e del prossimo.

È lo stesso sentimento che sta scavando un solco profondissimo e pericolosissimo tra mondo del lavoro pubblico o ad esso equiparato e mondo del lavoro privato e autonomo: il primo tutelato, il secondo lasciato sotto la pioggia senza ombrello.

Così, ad esempio, sentire in tv, che i sindacati del pubblico impiego stanno spingendo per l’erogazione dei buoni pasto anche durante lo smartworking, non è soffiare sul fuoco, ma gettarci benzina.

Siamo agli antipodi del buonsenso!

Adesso, però, che siamo arrivati, più o meno, tutti di nuovo sullo stesso binario, già stretto ma che potrebbe stringersi ancora di più, qui ed ora può scattare la solidarietà. Una solidarietà reciproca e generale.

Non possiamo nel nostro piccolo di cittadini operare una perequazione tra salari, pur se si potrebbe puntare a creare una sorta di fondo di sostegno comunale, su cui far confluire qualche spicciolo di donatori del settore pubblico o del privato più benestante, per aiutare i cittadini (seriamente) in difficoltà. Possiamo però attuare facilmente altro.

Compriamo nei negozi del nostro paese, spendiamo nei ristoranti e nei bar e negli esercizi del nostro paese. Affidiamoci ai servizi presenti sul nostro territorio. Puntiamo, per quanto possibile, alla filiera corta. Servirà ad aiutare le categorie economicamente e moralmente. Di contro commercianti, autonomi e imprenditori tengano d’occhio i prezzi, li smussino un po’ perché i tempi non sono facili per nessuno e l’idea di risparmiare magari online o in qualche centro commerciale o preparando i piatti in casa, non è cattiveria.

Se ci sono i conti da far quadrare, diventa necessità! Ora forse può venir fuori quel concetto di solidarietà tipico di ideologie politiche che credevamo sepolte dalla imponente avanzata del Capitalismo…guadagnare meno, ma guadagnare tutti, mangiare meno, ma mangiare tutti!

“Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”!

Anna Iaccarino