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L’arrivo a Ponte Orazio Est

Come di consuetudine sono l’ultimo a raggiungere il drappello che si è dato appuntamento ai piedi del muro che da oltre quattro anni divide Ponte Orazio in due: Ponte Orazio Est (Comune di Meta) e Ponte Orazio Ovest (Comune di Piano di Sorrento). Giungo bardato di tutto punto, come raccomandatomi da Gigino. Caschetto, occhiali protettivi, guanti, tuta lunga, scarpe agevoli e zainetto in spalla. Saremo dovuti essere in sei, ma all’ultimo momento Claudio d’Esposito (WWF) ha dato forfait. Così siamo rimasti in cinque, come i mitici Duran Duran prima maniera.

A capo della spedizione si mette Capitan Enzuccio. Al centro io, Tonino e Giovanni. A chiudere la cordata il mitico Gigino. La formazione, però, durante il tragitto cambierà spesso il suo ordine.

Si scende attraverso delle scale che fiancheggiano via Trinità. Apprendiamo da Capitan Enzuccio che la ciminiera sulla nostra destra un tempo faceva parte di un mulino, del tipo di quelli che c’era al Vallone di Sorrento. Qualche decina di agevoli scalini e ci ritroviamo subito al centro della Terra delle Sirene.

Sulla nostra testa si staglia il Ponte Orazio. Sembra un’immagine di altri tempi. Suggestiva ed intrigante.

Nel primo tratto il letto in tufo del vecchio e glorioso rivo è ancora solcato da una limpida e ed invitante acqua. Ai lati del canyon la vegetazione continua a combattere incessantemente la sua eterna battaglia contro i quintali di detriti e munnezze varie che quotidianamente vengono sversate più a monte, laddove il vallone abbandona il territorio metese per inoltrarsi in quello vicano.

Ad un tratto, dopo aver salutato una rana che beatamente si crogiola ai margini delle “chiare, fresche et dolci acque” Gigino ci invita ad alzare lo sguardo al cielo. Sopra alle nostre teste un enorme fico sprigiona le sue radici in verticale. Rassicurante nella sua possanza sembra volerci quasi invitare a stare tranquilli. Che lì non sarebbe potuto cadere mai nulla, perché avrebbe vegliato lui con i suo tentacoli arborei.

Uno spettacolo della natura.

A Ponte Maggiore viene il bello, ma anche no

Man mano che proseguiamo nel nostro percorso, rimbalzando tra un masso di tufo ed un altro nel tentativo di non inzupparci le calzature, il rivo di Lavinola diventa sempre più asciutto.

La forza intransigente delle acque ha scavato nei secoli una profonda ferita nel greto. Quello zampillo di vita alimenta costantemente le imponenti felci. Intanto sulle nostre teste inizia ad aggirarsi una sorta di drone naturale. Gli esperti lo giudicano un falco, sparisce dopo un poco, non lasciando a Giovanni il tempo di immortalarlo. Di tanto in tanto qualche serpe nera esce dalla propria tana per venire a sincerarsi di tutto quel trambusto. Rapida occhiata e via nell’enorme dedalo di radici e tronchi caduti più o meno spontaneamente.

Ad un tratto si inizia ad avvertire anche un certo non so che di modernità.

Alziamo nuovamente lo sguardo ed ecco apparire la triplice arcata che sorregge il ponte sulla statale: Ponte Maggiore. Solcato dai copertoni sprigiona fastidiosi rombi di motore e starnazzii di clacson.

E’ proprio lì che facciamo la prima importante sosta.

Enzuccio e Gigino ci spiegano che da quel punto in avanti si inizia ad entrare nella parte più bella e dannata del vallone.

Tra non molto arriveremo alle famose grotte, dove ci attendono incredibili sorprese: nel bene e nel male.

Aggiusto caschetto ed occhiali, mentre la mia allergia stagionale brinda allegramente in quel simposio di pollini.

Cucù e l’acqua non c’è più

Percorriamo pochi metri e subito ci accorgiamo che l’acqua non scorre più tra i lembi tufacei dell’ampia gola.

Mentre le scarpe affondano in melmosi cumuli di munnezza, lo sguardo viene carpito da un’esplosione di natura selvaggia che ci circonda. Quasi sprezzante di quella catastrofe ambientale emerge in tutta la sua fierezza.

E’ la forza della natura…

…sussurro a Gigino.

La mia mente corre alla devastata città fantasma di Prypjat. Laddove la nostra Madre Terra in poco più di trent’anni ha dimostrato di saper essere molto più forte e tenace delle misere sciagure umane.

A Madre Terra basta davvero poco per cancellare le nostre nefandezze. Non le occorrono opere titaniche né ingenti contributi. Con poche manciate di humus è capace di fagocitare silenziosamente quintali di munnezza.

E’ un qualcosa di inenarrabile.

Basta scavare pochi centimetri per scoprire che sotto quel manto di verginità vegetale sonnacchiano mortificate taniche, bottiglie, copertoni ed altri lerci avanzi della nostra modernità.

Tutti inghiottiti in quella esplosione di colori e fragranze.

E’ orribilmente bello, come la sagoma di un dolce bambolotto che un tempo era stretto in chissà quali amorose e tenere braccia di bimba e che adesso giace atterrito ai margini del vallone.

I suoi enormi occhioni azzurri mi guardano impietriti. Atterriti, ma anche minacciosi.

Ma che cazzo state combinando voi umani…

…sembrano volermi dire.

Già, che cazzo stiamo combinando?

(FINE PRIMA PUNTATA)

Johnny Pollio